Salon Catedral

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25.0 – Mucho peligro – luogo per educande – dentro il mai visto – imperterrite con tacco dodici – solo agua con gas – dalla testa ai piedi.

È come se non ballassi…
Non cambiare il modo di ballare…

Terzo viaggio.
È sabato: sera o notte? Qui il tempo va per conto suo. È facile confondere e confondersi. Appuntamento alle 22.30 alla stazione. Siamo in otto. In treno fino a Constitucion. Cosa da non fare se si è da soli: mucho peligro. Poi media ora di colectivo 151. Barrio di Almagro, all’esquina fra Corrientes e Medrano. Due quadras e siamo davanti alla nostra meta. È mezzanotte. Ci siamo adeguati agli orari dei porteños.

Milonga La Catedral o Salon Catedral: varchiamo l’ingresso. Sembra di essere in uno di quegli edifici occupati da homeless o gruppi spontanei di protesta o una comune di hippies anni sessanta.

Saliamo scale diroccate, rovinate, rappezzate: parte cemento, parte metallo. Veinticinco pesos: sempre quelli. Siamo nell’anticamera dell’inferno. L’Indipendencia di due sere fa, in confronto è un luogo per educande.

Questo è l’antro di un diavolo porteño. Una caverna di oggetti, cose e materiali recuperati da discariche, soffitte, rigattieri, cambalaches, angoli di strada, mucchi di basura, vecchi cantieri, macerie.

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Questo è l’arredamento, questo è l’ambiente che Eric il maestro ha scelto per noi. Siamo dentro il mai visto. Amedeo apre la bocca incredula: – non pensavo che un posto del genere esistesse -. Non parlerà per tutto il resto della nottata.

Tanta gente: tutti fuori, out, off… Nessuno lo è, ma l’impressione è questa. Tantissimo spazio: questa milonga è una rimessa, un magazzino.

Tanghi classici che fanno accapponare la pelle: uno più bello dell’altro. L’elettronico?: non sanno cosa sia. La musica da Piazzolla in poi è semplicemente ignorata, non le giovani orquestas.

Pavimento in legno, assi di larice vecchie come il cucco, straconsumate da decenni e milioni di piedi. I tacchi delle donne? Se la cavano alla grande. Alcune con scarpe basse, qualcuna scalza, altre imperterrite con tacco dodici.

Non è un film post-atomico, non è un post fine di tutto. Non è the day after. È adesso in diretta. L’aria che c’è inebria la mente, la capovolge. Bevo solo agua con gas e mi sento ubriaco.

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Ogni cosa è rotta, a pezzi. Avanzi di tavole di cantiere appoggiate a cassette di frutta o blocchi sbriciolati di cemento per sedersi. Sopra materassi e cuscini che non userei nemmeno per dare conforto agli inquilini di un pollaio.

Sembra il tempio di una setta di adoratori di qualche rito proibito, sotterraneo, underground. Sono frastornato: la spontaneità ti prende dalla testa ai piedi. Nessuna inibizione, nessuna diffidenza. Si balla parecchio: siamo qui solo per questo! Nessuno pensa ad altro se non a ballare.

C’è anche un gruppo di giovani suonatori: folklore argentino per mezz’ora. Sono in libera uscita da qualche centro di salute mentale. Sono di fretta probabilmente hanno già sgarrato sull’orario del rientro.

Poi ancora tango, solo tango, all’infinito. Restiamo fino alle quattro e venti, l’ora del remis venuto per riportarci a casa.

Le foto sono meglio delle parole.

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